Le ONG (Organizzazioni Non Governative) sono organizzazioni indipendenti dai governi e senza scopo di lucro, operanti a livello locale, nazionale o internazionale per il conseguimento di obiettivi che variano a seconda dei loro campi d’intervento. Amnesty International e Human Rights Watch si occupano della difesa dei diritti umani, al fine di denunciare ed eliminare gravi abusi e dare voce agli oppressi di tutto il mondo.
La loro quotidiana lotta a tutela dei più deboli ha permesso a tutti noi di compiere enormi passi sulla via del rispetto e del riconoscimento della dignità altrui, semplicemente per il fatto che queste organizzazioni rappresentano tutti gli individui che non vogliono accettare l’ingiustizia. Pubblicando dossier e facendo appelli, tali ONG fanno sì che gli occhi di tutti si rivolgano verso coloro che brutalmente calpestano la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Nello stesso tempo servono a dare un volto e una voce a tutti quelli i cui diritti vengono violati, in ogni angolo della terra.
E oggi, proprio come quando, nella seconda metà del secolo scorso, tante persone si sono unite sotto la “bandiera internazionale” dei diritti degli uomini e hanno decretato la nascita di AI e HRW, la lotta continua perché ci sono ancora tante cose da fare, tante persone da aiutare, tante vittime e abusi che potrebbero – e devono – essere evitati.
Ma nel concreto, queste ONG cosa fanno?
I campi d’azione sono tantissimi e spaziano dalla campagna contro la tortura a quella per la difesa dei diritti degli immigrati. Sarebbe difficile in questa sede enumerare anche solo la metà delle battaglie che hanno portato avanti ma, per far capire meglio quanto queste ONG abbiano voce in capitolo nelle questioni internazionali che concernono i diritti umani, abbiamo scelto alcuni casi specifici in cui queste organizzazioni hanno ottenuto, o stanno cercando di ottenere, risultati concreti.
La prigione di Guantanamo
La prigione di Guantanamo è una struttura detentiva, aperta all’interno della base navale dell’isola di Cuba l’11 Gennaio 2002 dal Governo degli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Bush. Lo scopo era quello di rinchiudere in un unico luogo, in regime di isolamento totale, i prigionieri catturati in Afghanistan collegabili alle attività terroristiche di Al Qaeda o all’ex regime afgano dei Talebani. Ma, dopo neppure un mese dall’apertura, Amnesty International, Human Rights Watch e l’Alto Commissario per i Diritti dell’Uomo dell’ONU, Mary Robinson, cominciarono a protestare contro le condizioni di detenzione dei prigionieri, sebbene secondo Donald Rumsfeld, che allora ricopriva il ruolo di Segretario della Difesa degli Stati Uniti, esse non si discostassero “nelle parti essenziali” dalla Convenzione di Ginevra. Evidentemente non era così se il 29 Giugno 2006, in occasione dell’appello del detenuto Salim Ahmed Hamdan, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha sentenziato proprio la violazione della Convenzione di Ginevra (che stabilisce anche la nozione di “combattente” e quindi il trattamento da riservare ai prigionieri di guerra) e del Codice di Giustizia Militare statunitense. Sotto accusa l’istituzione di tribunali militari speciali creati con il compito di giudicare i detenuti e le condizioni di vita, degradanti e disumane dei prigionieri.
Poco prima Amnesty International aveva pubblicato un rapporto in cui rendeva noto che:
1) Secondo i Tribunali di revisione (CSRT) dello status di combattente creati nel 2004, il 93% dei 554 prigionieri sotto processo erano a tutti gli effetti e senza ombra di dubbio dei “combattenti nemici”. Certamente non deve essere stato difficile emanare una sentenza del genere, considerando che i detenuti non avevano diritto ad alcun rappresentante legale e che molti non si sono presentati alle udienze, poiché i CSRT avevano la possibilità di avvalersi di prove segrete e di testimonianze estorte sotto tortura.
2) Per protestare contro le invivibili condizioni di detenzione e la mancanza di accesso a una Corte indipendente, i prigionieri hanno ripreso nell’agosto 2005 uno sciopero della fame cominciato in giugno. I partecipanti sono stati in totale più di 200 e molti di questi hanno denunciato di essere stati aggrediti verbalmente e fisicamente dalle guardie, che sono arrivate, in alcuni casi, a nutrire i prigionieri con la forza. Il Governo ha ovviamente negato ogni tipo di maltrattamento, ma alcuni detenuti hanno riportato evidenti lesioni causate dai pestaggi e dall’inserimento di tubi e cannule nel naso.
3) Nel novembre 2005 il Governo degli Stati Uniti ha ufficialmente invitato tre esperti in diritti umani delle Nazioni Unite a visitare la prigione di Guantanamo, poiché, su questo tipo di ispezioni, erano state poste restrizioni non accettabili secondo gli standard internazionali. Essi però hanno rifiutato.
Alla fine del 2008, il neoeletto presidente Barack Obama aveva dichiarato la sua volontà di chiudere la prigione e nel gennaio 2009 firmò l’ordine per la sua chiusura definitiva. A quattro anni esatti di distanza, il campo di prigionia di Guantanamo è ancora aperto.
Nel 2010 Amnesty International, Reprieve (ONG specializzata nel fornire assistenza legale e umanitaria a detenuti a cui è stata sentenziata la pena di morte) e il Centro per i diritti costituzionali hanno rivolto un appello a una serie di Paesi europei per trovare asilo a circa 50 detenuti rinchiusi illegalmente e che non possono tornare in patria per paura di ulteriori maltrattamenti. Infatti, per quanto possa sembrare assurdo, alcuni prigionieri preferiscono rimanere confinati a Guantanamo piuttosto che tornare nei Paesi di origine. Clamorosi sono stati i casi di due ex detenuti tunisini, che hanno chiesto aiuto a Human Rights Watch per le torture ricevute una volta usciti di prigione e di un algerino, che ha fatto ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti invocando il suo diritto a non essere liberato, temendo torture nel suo Paese d’origine. Uno dei principali ostacoli alla chiusura della prigione è appunto la drammatica situazione di queste persone, abbandonate a loro stesse e con il solo diritto di scegliere se i loro aguzzini saranno le guardie di Guantanamo o i loro compatrioti.
Grazie anche alle battaglie di AI oggi siamo più vicini alla chiusura della prigione, anche se è evidente la presenza di un problema più grande: come è possibile che un uomo non voglia tornare in patria, dopo lunghi anni di prigionia? Si sono dette cose terribili sul trattamento riservato ai detenuti, ma per alcuni questo è preferibile a quello che li aspetterebbe a “casa”. Davvero, come abbiamo già scritto, ci sono ancora tante cose da fare per migliorare questo mondo.
I bambini soldato
Il fenomeno dei bambini soldato ha radici antiche. Nel corso della storia è stato considerato moralmente lecito, nel caso di conflitti bellici, ricorrere all’utilizzo dei bambini. Essi sono stati usati con ruoli secondari, non per preservarli dal combattimento, ma per sfruttarne le “caratteristiche” di bambini. Spesso, per esempio, sono stati utilizzati per lo spionaggio e, dall’introduzione dei campi minati, per “sperimentarli” ed evitare così che venissero “danneggiate” le vere truppe. Anche nella Seconda guerra mondiale ci sono stati esempi di questa pratica, soprattutto nei Paesi non occidentali. Dopo i due conflitti globali il numero di bambini soldato è aumentato esponenzialmente, per il coinvolgimento di vari Paesi in guerre civili. Ad oggi infatti, risulterebbero circa 300.000 bambini armati in tutto il mondo, anche se per ovvi motivi risulta impossibile poter stabilire una cifra certa. Africa, Asia e America latina ma anche Europa. Nessun continente è immune. Neanche i Paesi occidentali. Anche il Regno Unito, infatti , si è ritrovato nelle liste che segnalano i Paesi che fanno uso di minori in azioni belliche. Accadde in Iraq, dove furono inviati ragazzi che non avevano compiuto ancora diciotto anni. Accade in Israele, dove vengono reclutati anche qui al di sotto dei 18 anni per far parte della guardia civile. Anche se spesso l’attenzione delle istituzioni internazionali si concentra solo sui Paesi del Sud del mondo.
Nel maggio 1998 sei ONG, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno fondato la Coalizione per fermare l’uso dei bambini soldato, per proibire il reclutamento di qualsiasi persona di età inferiore ai 18 anni. Questo principio viene applicato a tutti gli eserciti, a prescindere dal fatto che siano o no governativi. Ovviamente tale pratica è condannata anche dall’ONU, ed esistono sanzioni per coloro che usano i bambini soldato, come affermato nella Convenzione n°138 dell’ILO (Organizzazione Internazione del Lavoro). Tale Convenzione stabilisce che: “il concetto di età minima per l’ammissione all’impiego o lavoro che per sua natura o per le circostanze in cui si svolge porti un rischio per la salute, la sicurezza fisica o morale dei giovani, può essere applicata anche al coinvolgimento nei conflitti armati“. L’età minima, secondo la Convenzione n. 138, corrisponde ai 18 anni.Tutto ciò però, non ha messo la parola fine a questo fenomeno, nonostante l’impegno di Organizzazioni internazionali, piccole e grandi Ong, Associazioni e singoli individui. E nonostante l’evoluzione e sviluppi della tutela giuridica del bambino soldato nel diritto internazionale.
La pena di morte
Dal 1961, anno della nascita di Amnesty International, questa ONG ha avuto come obiettivo l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo, opponendosi incondizionatamente a una pratica che nega il diritto stesso alla vita. Grazie a questa campagna permanente, il numero di Paesi in cui la pena capitale è stata completamente eliminata per legge è salito da 9 a 97, mentre i Paesi mantenitori da 124 che erano, sono diventati 58.
Tuttavia si è ancora lontani dal raggiungimento dell’obiettivo, basti pensare che alla fine del 2010 almeno 17.833 persone in tutto il mondo erano rinchiuse nei bracci della morte e che nello stesso anno in Cina sono state eseguite più condanne a morte che in tutto il resto del pianeta. E non si parla soltanto di maggiorenni. Nel 2011 in alcuni Paesi, tra cui Iran, Arabia Saudita e Sudan sono state condannate a morte persone che, al momento del compimento del reato, si sospetta avessero meno di 18 anni. Il problema è proprio che si sospetta soltanto che fossero minorenni, perché spesso non esistono documenti probatori, come i certificati di nascita, e quindi l’età degli imputati non è neppure certa. Nonostante le difficoltà, AI non ha intenzione di alzare bandiera bianca, anzi, è uno dei membri fondatori della Coalizione mondiale contro la pena di morte e organizza le attività della Rete asiatica contro la pena di morte, tentando di mantenere sotto controllo il numero di esecuzioni, sebbene spesso, per quanto riguarda alcuni Paesi, sia impossibile reperire informazioni precise.
L’ONG è consapevole del fatto che passeranno ancora molti anni prima che Stati come Cina, Stati Uniti e Giappone aboliscano la pena di morte, ma nel dossier pubblicato in occasione del 10 Ottobre 2011 (giornata mondiale contro la pena di morte), ha invitato questi Paesi a compiere un primo passo, chiedendo ai loro Governi di istituire una moratoria sulle esecuzioni, commutare le sentenze capitali in pene detentive, ratificare il Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici per l’abolizione della pena di morte e uniformare le leggi al diritto internazionale in materia di diritti umani. Ciò significherebbe ridurre l’uso della pena di morte ai crimini più gravi, eliminarne comunque l’obbligatorietà, assicurarsi che tutti i casi di pena di morte siano portati avanti nel rispetto degli standard internazionali sul giusto processo e vietare le condanne per i minorenni, per le persone affette da disturbi mentali, per le donne in stato di gravidanza o con un bambino molto piccolo.
Bombe a grappolo in Siria
Le Organizzazioni non governative che si battono per la difesa dei diritti umani si occupano anche della protezione delle popolazioni civili durante le guerre e di portare avanti campagne contro l’utilizzo di armi troppo pericolose. Armi che spesso vengono utilizzate con lo scopo di colpire gente indifesa, la cosiddetta popolazione civile. In un articolo del 14 ottobre 2012 Human Rights Watch ha denunciato l’utilizzo di bombe a grappolo nelle zone di maggior conflitto tra l’esercito siriano e i ribelli. Queste armi micidiali possono essere sganciate da un aereo o sparate da terra con un lanciarazzi e sono costituite da un corpo principale contenente dalle 72 alle 92 bombe più piccole che cadono in un’area di 4800 metri quadrati dall’esplosione principale. A causa dell’enorme raggio d’azione e della conseguente impossibilità di precisione di questo tipo di armi, esse sono state bandite l’1 agosto 2010 dalla Convenzione sulle munizioni a grappolo, a cui però la Siria non ha aderito. Oltre alla grande imprecisione le bombe a grappolo costituiscono un pericolo anche perché lasciano in giro tanti piccoli ordigni inesplosi e sono numerosi i video pubblicati da attivisti siriani in cui perfino i bambini maneggiano queste armi così pericolose.
Un articolo più recente, pubblicato il 29 ottobre scorso, riporta che due bombe a grappolo sono state sganciate da elicotteri siriani a Abo Hilal, nelle vicinanze della città di Idibib, e hanno colpito una struttura per il trattamento delle olive e un uliveto nelle vicinanze uccidendo una dozzina di lavoratori, tra cui almeno due donne e un bambino, e ferendone dieci. L’obbiettivo di questo attacco apparentemente era proprio la popolazione civile in quanto, secondo quello che riportano i cittadini, nell’impianto non si erano mai verificate attività ribelli né all’interno della struttura né nelle sue vicinanze. Quattro giorni prima, durante un attacco in una città vicino a Damasco, erano stati uccisi 11 bambini e persino una scuola era stata bersaglio delle bombe a grappolo. Le armi usate dall’esercito siriano sono di produzione russa ma non è chiaro quando e come la Siria ne sia entrata in possesso e, anche se le autorità russe smentiscono l’appartenenza di queste armi, è certo che siano state prodotte da loro negli anni 70.
Human Rights Watch, oltre a riportare la violazione del diritto alla vita e del diritto alla sicurezza dei cittadini siriani, si sta impegnando per informare la popolazione siriana della potenziale pericolosità costituita dalle bombe inesplose (diverse persone sono morte nel tentativo di rimuoverle dalla loro proprietà o dalla strada), tramite la trasmissione di appelli televisivi e la ripetizione del messaggio durante le messe.
Il caso dei manifestanti birmani
Human Rights Watch sta attualmente facendo sentire la propria voce sulla violenta repressione contro monaci e manifestanti pacifisti birmani. Infatti il 29 Novembre 2012 nella città di Monywa le forze di sicurezza locali hanno sgomberato sei presidi di protesta, presso la miniera di rame di Letpaudaung. La protesta è esplosa perché in ventisei villaggi attorno alla miniera si riscontrano notevoli problemi di salubrità dell’aria e del suolo, nonché di contaminazione dell’acqua. Inoltre, molti proprietari delle terre, confiscate per la realizzazione di questo e di altri siti minerari della zona, non sono stati ancora indennizzati. Lo sgombero dei presidi è avvenuto con l’uso di gas lacrimogeni, di fumogeni, persino di armi da fuoco e almeno 40 persone sono rimaste ferite, per non parlare del numero imprecisato di arresti che ha seguito il blitz. Human Rights Watch ha chiesto al Governo birmano di garantire il diritto di riunione pacifica, i diritti umani fondamentali dell’uomo, la possibilità di un avvocato ai manifestanti e inoltre che i pubblici ufficiali applichino misure non violente. Infine ha domandato ad Aung San Suu Kyi di premere sul Governo, affinché indaghi su coloro che hanno adoperato la forza in modo eccessivo.
Conclusione
Ci sono tante persone che soffrono nel mondo, per così tante ragioni che neppure si riesce a contarle tutte, eppure grazie anche ad Organizzazioni non governative come AI e HRW si può credere che le cose cambieranno. Non perché abbiano dei superpoteri con cui cambiare le sorti del mondo semplicemente schioccando le dita, ma perché si può avere fiducia nel fatto che non getteranno la spugna prima di aver ottenuto quello che vogliono: un mondo dove nessuno possa ritenersi più fortunato perché è nato in un Paese piuttosto che in un altro e dove vivere sia dovunque ugualmente bello. Non va però dimenticato che queste organizzazioni sono nate dall’idea di gente comune e che sono proprio uomini e donne come noi a portare avanti le grandi battaglie a difesa dei diritti umani. Persone ordinarie che da sole non possono fare granché per cambiare le cose, ma che si sono accorte di non essere le uniche a desiderare un mondo migliore per tutti.
C’è un antico proverbio africano che recita: “If you want to go fast, go alone. If you want to go far, go together” (Se vuoi andare veloce, vai da solo. Se vuoi andare lontano, vai con gli altri). Sta soltanto a noi decidere come far fruttare il tempo di cui disponiamo. Possiamo vivere la nostra vita cercando con tutte le nostre forze di raggiungere da soli la vetta più lontana, oppure camminare insieme a tutti quelli che vorranno venire con noi, aiutare gli altri a salire, sapendo di poter contare sul loro appoggio e con la certezza che insieme è molto più difficile fallire. Le persone che fanno parte di Amnesty International e Human Rights Watch hanno fatto la scelta di intraprendere insieme questo viaggio. Noi cosa scegliamo?