Matilde Matarazzo 5^F
Vero è che nell’ultimo secolo, molto più che in quelli precedenti, l’umanità ha fatto passi da gigante nella ricerca scientifica. Per esempio il 14 dicembre del 1900 Max Planck rese pubblico il concetto di quanto di energia, dando via così alla grande rivoluzione della meccanica quantistica. Il 12 dicembre del 1901 Guglielmo Marconi dalle spiagge di Cape Cod (Massachussetts USA) inviò il primo segnale-radio transoceanico. Il 4 aprile 1909 i membri della spedizione al seguito dello statunitense Robert Edwin Peary raggiunsero il Polo Nord geografico per la prima volta nella storia. Sette anni dopo Albert Einstein pubblicò i suoi studi sulla teoria della relatività.
E via dicendo fino ad arrivare alla costruzione dello Sputnik 1, il primo satellite artificiale, lanciato nel 1957 dall’Unione Sovietica, alle ricerche sull’evoluzione dell’uomo fino alla scoperta dei primi fossili di Homo Habilis da parte di Louis e Jonathan Leakey del 1960. In campo medico partendo dall’individuazione dei geni come sede dei caratteri ereditari (Thomas Hunt Morgan, 1908) si arriva fino alla possibilità dei primi trapianti di organi, nel 1963 quello di fegato e nel 1967 quello di cuore, e alla nascita, nel 1978, della bambina, di nome Louise Brown, frutto della prima fecondazione in vitro riuscita con successo.
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Ma tutti questi risultati con esiti positivi, che rappresentano solo una minima parte delle rivelazioni a cui la ricerca ha portato negli ultimi cento anni, rischiano di mettere in secondo piano o addirittura di nascondere il fatto che lo sviluppo scientifico sia stato utilizzato anche a discapito del genere umano, con la diffusione per esempio di armi di distruzione di massa. Tra queste ultime si distinguono armi nucleari e armi radiologiche, la cui differenza sta nel differente potenziale distruttivo che è minore nelle seconde, armi biologiche (o armi batteriologiche) e armi chimiche.
Le armi nucleari, chiamate anche armi atomiche, sono quelle che sfruttano la fissione nucleare e/o la fusione termonucleare. Esse provocano un’esplosione la cui energia si ripartisce in tre modi diversi: il 15% è irraggiamento di radiazioni (raggi γ e neutroni) nelle zone circostanti; il 50% forma un’onda d’urto, che si espande ad una velocità inizialmente molto superiore a quella di propagazione del suono, che genera un enorme sbalzo di pressione per cose e persone; la restante parte forma un’onda di calore, che si propaga più lentamente, che vaporizza o, man mano che ci si allontana, incendia qualsiasi cosa si trovi intorno all’epicentro dell’esplosione. C’è da considerare anche l’impulso elettro-magnetico che provoca la distruzione di circuiti elettrici anche a chilometri di distanza rendendo così difficoltoso il contatto con le aree colpite. Gli effetti sono devastanti e duraturi nel tempo, basti pensare alla quantità di materiale radioattivo che viene disperso nell’aria e che impregna l’ambiente circostante, ma anche zone distanti, a seconda dell’azione di fattori, come il vento, che possono trasportarlo.
Le prime bombe atomiche furono sganciate, su ordine del presidente statunitense Truman, su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 luglio 1945, due città del Giappone la cui distruzione avrebbe con ogni probabilità portato alla resa di questa potenza militare e alla fine della Seconda guerra mondiale. Le conseguenze furono disastrose: migliaia di persone furono carbonizzate all’istante e alla fine dell’anno si contavano circa 170 mila vittime, senza contare l’aumento di leucemie e altri tumori, di malfunzionamento di organi e tessuti, che cominciarono a mietere i sopravvissuti di lì a quindici anni, e di malattie genetiche, che sono riscontrabili nei luoghi colpiti anche nelle generazioni nostre contemporanee. Il totale delle persone che morirono a causa delle conseguenze dell’esplosione si aggira intorno ai 430 mila abitanti.
Nonostante l’orrore al pensiero di fino a che punto poteva essere crudele la mente umana nei piani di annientamento dei propri simili, nel corso del dopoguerra, le armi atomiche vennero acquistate anche dalle altre principali potenze mondiali: URSS (1949), Regno Unito (1952), Francia (1960) e Cina (1964). Il motivo principale di questa corsa agli armamenti era che ogni conflitto, con la minaccia o con l’effettivo impiego di questi ordigni, si sarebbe risolto in tempi brevi e non ci sarebbero state guerre di logoramento come testimoniavano la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Per quanto riguarda le armi chimiche, esse non sono legate ad una qualche esplosione, evento che potrebbe magari far immaginare meglio il concetto di distruzione di massa. Si basano infatti sull’utilizzo delle proprietà tossiche di alcune sostanze, che tramite gli effetti che possono avere sui processi vitali, causano morte o incapacità temporanea, o permanente, a uomini e animali. L’impiego sistematico di queste sostanze nocive o irritanti per l’uomo come elemento determinante per le sorti di uno scontro, lo si ritrova per la prima volta nel corso della Prima guerra mondiale.
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L’elevato numero di vittime causate portò a stilare, nel 1925, il Protocollo di Ginevra che fu firmato da 149 stati e in cui la comunità internazionale prendeva coscienza dell’efficacia distruttiva offerta dalle nuove armi. Diverse nazioni, pur firmando il trattato si arrogarono la facoltà di utilizzare l’arsenale chimico in risposta ad un’offensiva con aggressivi chimici. Altri stati firmatari disobbedirono poi ai Patti utilizzando queste armi in azioni di guerra, negli anni ’30 l’Italia in Etiopia o il Giappone in Manciuria. Nonostante fossero ingenti le riserve accumulate di questi strumenti, non ci fu invece alcun caso di loro impiego durante la Seconda guerra mondiale. Tale situazione di stallo durò tuttavia solo quarant’anni e durante gli anni del conflitto fra Iran e Iraq (1980-1988) fu attestato un uso esteso di aggressivi tossici non convenzionali.
In seguito a questo aggravamento della minaccia, il diritto internazionale volle rispondere ad ogni impiego o intimidazione di impiego di questo tipo di armi di distruzione di massa, con l’applicazione di norme più severe per il controllo e la messa al bando di questi composti. Nel gennaio del 1993 venne quindi firmata a Parigi la Convenzione sulle armi chimiche CWC (Chemical Weapons Convention). Essa definiva una lista delle sostanze proibite, bandendone lo sviluppo, la produzione, l’accumulo e il trasferimento in tutti gli Stati che vi hanno aderito.
La differenza fondamentale fra armi chimiche e armi nucleari è che le prime sono considerate illegali, mentre le seconde no. Considerando la capacità di devastazione che presentavano le armi nucleari, il 1° luglio 1968 venne stipulato un accordo che ne limitava la produzione, avviava il disarmo, ma non negava il diritto di utilizzare le risorse nucleari per uso pacifico. Questo Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) fu sottoscritto da Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica e, successivamente alla sua entrata in vigore, il 5 marzo 1970, vi aderirono anche Francia, Cina e Corea del Nord, che in seguito si ritirò per non essersi sottoposta a delle ispezioni sospettata di costruire ordigni atomici. Attualmente gli stati firmatari sono 189, e non vi fanno parte oltre, alla Corea del Nord, India, Israele, Pakistan e Taiwan, che tuttavia si impegna a rispettarlo.
Sono passati più di quarant’anni dalla stesura di questo trattato e nessuno di questi Stati è riuscito a smantellare completamente i propri arsenali, come dimostrano i dati stimati ogni anno dal Natural Resources Defense Council.
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Quello che colpisce è che molti Stati si siano schierati così strenuamente dalla parte dei diritti umani conseguentemente all’utilizzo, qualche mese fa, delle armi chimiche contro i civili, da parte del regime siriano di Bashar al-Assad quando loro stessi possiedono arsenali di armi nucleari e rappresentano quindi una minaccia costante per la popolazione dell’intero pianeta. Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti, i più convinti nel voler reagire con un’offensiva per fermare i provvedimenti del regime di Damasco: non furono loro i primi ad usare le armi atomiche contro centinaia di migliaia di cittadini giapponesi innocenti? E non fu il loro esercito ad usare erbicidi come defolianti durante la Guerra del Vietnam, come parte del “programma erbicida”, senza considerare l’effettiva conseguenza che queste sostanze altamente pericolose per la salute dell’uomo avrebbero causato sui civili delle zone circostanti quelle di impiego?
Forse non tutti sanno che l’Agente Arancio, l’Agente Bianco e l’Agente Blu erano solo alcuni dei nomi in codice dei cosiddetti “erbicidi arcobaleno” utilizzati dagli eserciti americani per stanare i nemici di Vietnam, Cambogia e Laos nel corso degli anni Sessanta e per distruggerne giungle e coltivazioni. Gli effetti sugli esseri viventi causati dalle diossine tossiche rilasciate da queste sostanze furono sconcertanti: circa 4,5 milioni di vietnamiti furono esposti all’aria e ai cibi contaminati, successivamente affetti da dolori e patologie croniche, e ancora oggi c’è chi nasce con malattie e malformazioni e la loro aspettativa di vita si è di molto accorciata rispetto a quella che avrebbero avuto se gli americani non avessero deciso di impiegare i frutti delle loro ricerche senza conoscerne veramente le conseguenze a cui sarebbero andati incontro.
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Quindi è giusto che alcuni Stati si ergano a difensori dei diritti umani e poi minaccino la sicurezza altrui? Il progresso scientifico non dovrebbe cercare di migliorare la vita dell’uomo? Farla progredire piuttosto che intimorirla con la scoperta di nuovi strumenti di annientamento? La scienza non può esistere da sola, e prima di operare un disarmo degli Stati bisognerebbe operare un disarmo interiore.
“Poiché le guerre nascono nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono essere costruite le difese della pace” dice il preambolo della Costituzione dell’UNESCO del 1945. “Sappiamo più della guerra che della pace, più dell’uccidere che del vivere” affermava il generale statunitense Omar N. Bradley.
Possiamo usare la scienza per saperne di più del vivere anziché ricercare nuovi metodi per minacciare i nostri simili, andando incontro ad un fenomeno che in un ipotetico universo parallelo potrebbero considerare un’autodistruzione? La scienza amica dell’uomo e la scienza nemica non dovrebbero essere due facce di una stessa medaglia. La ricerca dovrebbe portare benefici, dovrebbe offrirci occasioni per migliorare il nostro stile di vita e non spunti per uno Stato che voglia sconfiggere un nemico o affermarsi come super-potenza mondiale. E tutto questo non è un’utopia, lo è solo se si pensa che un processo mentale simile possa diffondersi a macchia d’olio da un giorno all’altro. Ma nessuno chiede questo.
Ciò che si può fare è stabilire le basi per un meccanismo, che si protragga nel tempo, atto a rendere più facile e più sicura la vita delle generazioni che verranno. Perché è sulla mancanza di sicurezza, intesa come garanzia del soddisfacimento dei bisogni primari, che si sviluppano i conflitti e il terrorismo. Occorrono interconnessione, dialogo, coraggio ed impegno per riuscire in un intento così complesso, il cui risultato (forse) noi non vedremo mai. Ma soprattutto non bisogna perdere la speranza e concentrare gli sforzi sull’istruzione perché “l’istruzione è l’arma più potente che abbiamo per cambiare il mondo” (Nelson Mandela, Premio Nobel per la pace nel 1993).